Editoriale: Calciatori poco professionali? Semplice. Non comprateli.

Una breve riflessione sulle dinamiche calciatori-società

Cosa significa professionalità? 
Partiamo dall’ovvio: la definizione.
Dicesi professionalità quella “qualità di chi svolge il proprio lavoro con scrupolosità e adeguata preparazione” (Treccani).

Insomma, in altre parole, essere professionisti implica la necessità di porre attenzione ai particolari, ed al tempo stesso curare la propria competenza allo scopo di essere preparati a svolgere un compito con adeguatezza.

Ci sono tuttavia anche componenti se vogliamo più “etiche” nell’essere professionali e mi riferisco in particolare al rispetto che chi svolge un lavoro erogando una prestazione dovrebbe sia al committente che lo paga che, sottolineiamolo, a se stesso.

Questa breve premessa per condividere una riflessione sulle sempre più frequenti modalità con le quali assistiamo a professionisti (i calciatori) disposti ad assumere comportamenti oggettivamente poco dignitosi pur di andarsene dalla società con cui hanno stipulato un regolare contratto sotto il pieno libero arbitrio.  Storie che nel calciomercato moderno sono ormai all’ordine del giorno e che vedono le conseguenti contromosse societarie orientate ormai verso azioni legali, comunicati, multe, rimbrotti in diretta tv che sembrano ben poco efficaci.

Pur considerando pienamente legittimo il desiderio di cambiare aria, ritiri ed allenamenti saltati senza giustificazione, dichiarate volontà di abbandono, modestissimo rispetto non solo per i compagni e la squadra ma anche per la tifoseria (senza la quale, ricordiamolo, il calcio non esiterebbe neppure), non sembrano certo comportamenti “da manuale”.

Il che determina una necessaria riflessione sul ritorno a modalità di negoziazione e gestione dei rapporti e degli equilibri interni che riporti logica ed ordine in un sistema che sembra sempre più instabile e, evidentemente, a favore del calciatore professionista (specialmente se di medio-alto livello).

La domanda, per usare un gergo amato al buon Antonio Lubrano qualche anno fa, nasce spontanea: Non sarà mica il caso di tornare a chiarire il vero concetto e senso della parola “professionista”?

Insomma, non è che dovremmo rivalutare quelle semplici regolette basiche che dovrebbero contraddistinguere un vero calciatore professionista? Quello che si allena con dedizione  – guadagnandosi il dovuto rispetto con i fatti -, svolge il proprio compito con costanza e serietà (dentro e fuori dal campo), rispetta se stesso ma anche chi lo paga, grato (volendo..) a chi gli offre opportunità di crescita?

Onestamente penso proprio di sì. Non solo per il bene delle società sportive, ma soprattutto per tornare a dare ai giovani calciatori di oggi segnali e principi educativi ben diversi.

Allora, perché non provare a rovesciare le prospettive di analisi della questione?

È vero che le società sono schiave dei calciatori nel mercato attuale, ma è anche vero che nessuno le obbliga ad acquistare “professionisti” che hanno evidenziato comportamenti discutibili altrove.  Forse, seguendo tale principio (perché no, condiviso dai dirigenti sportivi e dai presidenti delle società!) mi viene da pensare che molto potrebbe cambiare.

A partire dalle realtà più importanti che, più di altre, hanno appeal (per gloria e potere economico) nei confronti degli atleti ma che, ad oggi, pur continuando a lamentarsi dei comportamenti sgarbati e poco etici di calciatori poco inclini al rispetto vero dei contratti, sono poi le prime a correre per accaparrarsi le loro prestazioni sportive.


Dott. Fabio Ciuffini,
Psicologo dello Sport
& Mental Trainer



www.psicologodellosport-toscana.it

 

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